Perché ci impegniamo tanto per emozionare con le parole?
Siamo storyteller dalla notte dei tempi, ma il nostro desiderio di raccontare va ben oltre quello della gloria, perché sappiamo che per vivere c’è bisogno dell’aiuto del gruppo. E allora ci prodighiamo per creare connessioni, per incantare con le nostre parole, per diventare oratori in grado di affascinare e di motivare gli altri a seguirci.
Raccontiamo per dare vita alla nostra immaginazione.
Ci esprimiamo per condividere pensieri e azioni.
Esponiamo riflessioni e storie che creano scenari quasi visibili agli occhi degli altri.
Lo facciamo perché abbiamo bisogno degli altri.
La motivazione che ci spingeva ai tempi delle caverne era di creare un gruppo in grado di sostenerci contro i nemici, di dare vita ad una famiglia, di continuare il nostro albero genetico.
Ora lo facciamo per motivi in parte simili. Cerchiamo ancora il supporto degli altri e vogliamo sopravvivere. Vogliamo estendere la forza del nostro ruolo all’interno della società, ma lo facciamo anche per emozionare.
Non che prima non ci fosse emozione nel raccontare le storie. Ma lì dove le sensazioni erano necessarie per rendere memorabili gli insegnamenti (la paura per incentivare a non commettere errori, il desiderio di sopravvivere per convincersi a legarsi agli altri, la gioia nel fare buone azioni, la tristezza nel fare un torto, la rabbia nel rimanere soli), oggi rientrano in quella trepidazione e nelle palpitazioni che cerchiamo per il nostro stesso benessere.
Vogliamo sentirci ancora parte di un gruppo, parte di una storia, i protagonisti o gli eroi in grado di superare sfide che non riusciamo a raggiungere nella vita reale. Sogniamo relazioni inesistenti, avventure impossibili, traguardi irraggiungibili, avvenimenti surreali.
E lo facciamo perché vogliamo credere di essere in grado di vivere una vita del genere, qualora vi fosse la possibilità di farlo.
Siamo sognatori che cercano ispirazione nei racconti; coraggiosi che vogliono spronare gli altri; speranzosi nelle capacità di trasformare la quotidianità in qualcosa di eccezionale.
Raccontiamo per emozionare e per creare legami, ma principalmente lo facciamo per esprimere concetti che non emergerebbero in altre occasioni.
Perché raccontiamo storie?
- scriviamo articoli che incitino gli altri (ma che nascono dalla nostra esigenza di condividere un pensiero importante per noi);
- postiamo sui social media per raccontare altri stili di vita (che ci rappresentano e che speriamo ci portino più vicino a persone simili a noi);
- inviamo newsletter per pubblicizzare novità e promozioni (che presentano una parte della nostra vita professionale, il nostro percorso e a cosa ci stiamo dedicando);
- esprimiamo noi stessi in podcast, audible, ebook, freebie, microcopy deliziosamente posizionati per divertire il lettore (e lo facciamo perché c’è sempre una parte di noi in tutto ciò che facciamo)
- seguiamo corsi su corsi per imparare a raccontare meglio per poter emozionare con le nostre parole
Siamo raccontatori perché è la nostra eredità.
Esponiamo noi stessi per lasciare qualcosa agli altri.
Cerchiamo relazioni per sentirci ancora parte di quel gruppo primordiale. Non abbiamo più bisogno di protezione per sopravvivere, ma vogliamo arricchire la vita altrui e la nostra con le parole, le emozioni e il potere del racconto.
Scriviamo per esserci e per liberare un pezzettino di noi stessi nell’aere (fisico o digitale).
Raccontiamo perché lì riversiamo tutta la nostra vita.
Le storie sono ciò che ci rende umani.
Anche io ho desiderato comunicare con gli altri e l’ho fatto dedicando qualcosa a tutti coloro che vogliono scrivere ogni genere di racconto (lungo o breve, narrativo o per i social). Il mio modo di emozionare con le parole, nella speranza di condividere qualcosa di utile.
Il mio microscopico lascito.